Tra contrasti e sfumature alla ricerca di qualche rara certezza. Ispirandosi alla fotografia che "contiene quella presenza-assenza che rende le sirene così misteriose e affascinanti". M. Blanchot.
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lunedì 15 aprile 2013
Dai Maya all’idea di progresso.
Superata la paura dell’ennesima catastrofe definitiva, questa volta annunciata da cattivi interpreti del calendario degli incolpevoli Maya si può riflettere con un pò più di calma sull’idea di fine del mondo. Ricorrente fin dai tempi antichi e in forme diverse presente in quasi tutte le culture, il concetto è stato rafforzato dalle grandi religioni monoteiste. Il Millenarismo passa dalla cultura ebraica a quella cristiana. In realtà, come afferma il grande medievalista francese Jacques Le Goff, l’idea di datare l’Apocalisse era stata in un primo tempo ritenuta blasfema, indebita interferenza con la volontà divina. Le cose cambiarono quando un testo scritto alla fine del primo secolo da un monaco greco fu attribuito a Giovanni e inserito nei Vangeli in un concilio tenutosi nel ‘300. L’immagine drammatica dell’Apocalisse (di questo si trattava) dominò tutto il Medioevo. Se il mondo aveva avuto inizio con la creazione era logico che avesse una fine e che questa coincidesse con la redenzione. L’aspetto più importante e meno considerato di tutta la faccenda è che l’Apocalisse, come la maggior parte delle forme di millenarismo, prevede l’avvento di un’era di pace e prosperità per gli uomini che precede la fine. Non solo dunque una ricompensa ultraterrena, ma un benessere duraturo e godibile nell’aldiquà. Difficile pensare a una fine improvvisa in tempi pieni di conflitti e miseria, una volta confinata nel terzo mondo, che oggi si allarga a macchia d’olio nei paesi industrializzati colpiti da nuove povertà.
L’idea fu messa in crisi dalla Riforma protestante e dalle scoperte scientifiche. Nella filosofia occidentale moderna a quella della fine si è più pragmaticamente contrapposta l’interpretazione dell’idea di progresso. Per avere una sintesi lucida di una questione così complessa vale allora la pena di andare a ritrovare un piccolo libro di Paolo Rossi Monti (1923-2012). Probabilmente non più in circolazione, ma ci sono sempre le biblioteche. Il maggiore studioso di storia della scienza italiano, che come tanti altri frequentatori del Pellegrino, l’Istituto di Filosofia di via Bolognese, ho avuto la fortuna di avere come professore, lo scrisse in polemica con improvvisati filosofi, divulgatori di catastrofi e costruttori di “quadri epocali”. Due esempi per tutti, l’avvento di un nuovo Medioevo (R. Vacca, Il Medioevo prossimo venturo, 1971) e la presunta fine della storia (F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, 1993). Più raffinato anche se paradossale il giudizio di Gyorgy Lukàcs (La distruzione della ragione, 1959) sulla filosofia di Schopenhauer: viviamo in un elegante hotel, fornito di ogni confort eretto sull’orlo di un baratro, elemento che accentua il godimento delle nostre piccole comodità e ne aumenta il “fascino piccante.”
Naufragi senza spettatori, L’idea di progresso (il Mulino, pag. 149,1995) questo il titolo del volume di Rossi, si apre con una citazione di Walter Benjamin (1892-1940) che, se condivisa, rimette le cose sotto la giusta prospettiva: “Non c’è mai stata un’epoca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, moderna, e non abbia creduto di essere immediatamente davanti a un abisso. La lucida coscienza disperata di stare nel mezzo di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell’umanità.” (Parigi capitale del XIX secolo, 1986).
E tornando ai progressi della scienza, che tanti ancora oggi si ostinano a vedere come portatori di disgrazie in nome di rinati infausti misticismi, scrive Rossi “la scoperta della bussola e i viaggi oceanici hanno sconvolto la storia del mondo, hanno modificato la posizione dell’uomo. Nessun impero, nessuna scuola filosofica, nessuna stella hanno avuto sulla storia umana un effetto maggiore di quello che hanno avuto quelle invenzioni.”
Stampa e polvere da sparo sono le altre due cui si riferisce. Si ritorna così al mare (sia detto per inciso l’elemento preferito di chi scrive) anzi all’oceano. Un intero capitolo è dedicato al viaggio oceanico inteso come strumento di conoscenza, contrapposto al facile bordeggiare sottocosta. Affrontare l’ignoto comporta rischi, implica la possibilità di un naufragio. Chi ha utilizzato ampiamente questa metafora è Francis Bacon (1561-1626).
La sua visione non prevede osservatori su una scogliera, bunker o sopravvissuti, la catastrofe non riguarda il mondo, ma le civiltà e non ha spettatori.
Neri Fadigati, gennaio 2013
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